Dammi un camice, ti compro un giornale.
È molto insistente, negli ambienti giornalistici, l’indiscrezione secondo cui un imprenditore della sanità privata sarebbe in trattative, più o meno mediate dalla politica regionale, per l’acquisto di un giornale sardo.
Quale sia il giornale non è difficile immaginarlo, perché non ve ne sono molti in vendita, ma non è neanche semplice affermarlo, perché, appunto, si tratta di indiscrezioni.
Ovviamente, ben vengano gli investimenti in informazione, ma quelli che sono connessi in qualche modo con le finanze pubbliche regionali puzzano.
Puzzano, in primo luogo, di ‘favore’, perché la sanità privata in Sardegna vive del budget a lei dedicato nel bilancio regionale, e dunque per questi imprenditori investire in informazione ha tanto il sapore di investire in ‘strumenti di pressione’.
Puzzano, in secondo luogo, di ‘reciprocità’, ossia di quello che in sardo sibillinamente viene chiamato ‘piaghere torradu’, sia per le cortesie ricevute e rese che per i torti patiti e restituiti (ma qui ricorrerebbe solo il primo caso).
Fatta questa premessa, che attiene alla pratica politica resistenziale perché svela il carattere ‘interessato’ di cui si potrebbe velare (se già non è velata) certa informazione (ed è paradossale che ne parli io e non altri), si può passare alla valutazione (in prima puntata, perché c’è molto da dire) della politica della Giunta verso le cliniche private.
Partiamo da un’affermazione riferita e non smentita: la Giunta avrebbe riconosciuto alcune strutture private Covid “per evitare che mettano i dipendenti in Cassa integrazione”.
Una rondine non fa primavera e una frase pronunciata può anche essere l’esito di un momento di debolezza e di mancanza di lucidità; può non far testo.
Tuttavia, in termini generali, va notato che i modelli virtuosi, tipo Veneto e Emilia, si sono preparati all’emergenza (che c’è stata anche in Sardegna e la verità emergerà pienamente quando si leggeranno, a posteriori, i dati Istat sui morti) tenendo attiva tutta la rete dei servizi sanitari, in modo da garantire i servizi anche durante l’epidemia attraverso presidi ospedalieri sicuri e efficienti.
La Regione, dunque, proprio nel momento di massima mobilitazione e di rischio, avrebbe avuto interesse a coinvolgere tutta la rete delle cliniche private nella rete Covid, in modo da poter erogare con le procedure dell’urgenza i dodicesimi degli stanziamenti già fissati, garantire i posti di lavoro e garantire servizi sicuri anche nelle cliniche private, senza costi aggiuntivi per la Regione. Viceversa, la Regione ha scelto fior da fiore, ha scelto tre privati e non tutti, e altri privati hanno temporaneamente chiuso, altri hanno mantenuto il personale a incassi azzerati dal lockdown mal gestito.
Quindi, alcuni privati, non premiati, hanno garantito i servizi e il personale durante il lockdown e verranno pagati per i soli servizi resi, altri, inseriti nella rete Covid, saranno pagati vuoto per pieno fino alla concorrenza del budget per dodicesimi e oltre, se necessario.
Ad alcuni si garantisce la cassa, ad altri si chiede di tirarsi il collo.
Un dato illuminante in tal senso è la delibera del 1° aprile che fissa la rete.
Se la si osserva con attenzione, si nota che nel Nord Sardegna, a fronte di diversi Pubblici Ospedali attivabili in emergenza (Alghero, Ittiri, Ozieri, Thiesi ecc. ecc.) si preferisce individuare le strutture pubbliche delle Cliniche a Sassari e del San Francesco a Nuoro, e quelle private del Mater Olbia e del Policlinico Sassarese; viceversa, man mano che si scende verso sud, si nota l’attivazione dei presidi ospedalieri periferici, con la sola eccezione della privata Città di Quartu.
Perché al Sud si attiva pressoché tutta la struttura ospedaliera pubblica e un solo privato e al Nord, invece, si attivano solo due presidi pubblici e due privati? Difficile a dirsi, ma che si noti una disparità di trattamento tra privato e privato e tra Nord e Sud pare un fatto evidente.
Per il momento ci fermiamo qui. (Paolo Maninchedda, www.sardegnaeliberta.it).
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