25 Aprile: Resistenza, la guerra obbligata dei partigiani (di Diego Pretini).
In “Anche i partigiani però…” la storica Chiara Colombini mette in fila tutti i capi d’imputazione che ciclicamente, tra frasi fatte e sentenze un tanto al chilo, vengono riproposti nei confronti di chi partecipò alle battaglie per la Liberazione e li affronta uno per uno. Tra questi quella che sembra una contraddizione, la scelta dell’uso della violenza. La strada? “Per capire quei venti mesi bisogna conoscere ciò che è stato, rivendicarlo per come è stato” .
“Oggi le persone benpensanti cambiano discorso infastidite quando sentono parlar di antifascismo: e se qualcuno ricorda che i tedeschi non erano agnelli, fanno una smorfia di tedio, come a sentir vecchi motivi di propaganda a cui nessuno più crede. I partigiani? Una forma di banditismo. I comitati di Liberazione? Un trucco dell’esarchia”. Erano passati solo 18 mesi dalla Liberazione e nell’ottobre 1946 Piero Calamandrei puntava il suo consueto cannocchiale visionario sulla Resistenza che aveva appena dato la democrazia e la libertà. Da allora, e non da oggi, sulla storia dei partigiani, quella del riscatto morale contro l’abiezione del fascismo e del nazismo, si posa ciclicamente una coltre di frasi fatte, facilonerie, mistificazioni, sollevate anche dal vento di libri di successo che durano una stagione. Una patina che rischia di inspessirsi via via che quei giorni si fanno più lontani: un brusio di fondo che, ogni volta come se fosse la prima, millanta “un’altra verità”, “quello che nessuno ha mai avuto il coraggio di dirvi” e intanto dura da ottant’anni. Fanatici che volevano fare come in Russia. Guerriglieri violenti, come gli altri, “i rossi come i neri”. Oppure bande di cialtroni, inutili perché se non c’erano gli americani a quest’ora… Anzi no: dissennati provocatori che si facevano scudo dei civili e che ai civili facevano pagare il prezzo di sangue delle loro azioni. Peggio, sterminatori assetati di vendetta: la Resistenza come un romanzo criminale. Venti mesi tramandati da un racconto mitico, cucito su misura, se non proprio contraffatto, perché “la storia la scrivono i vincitori”.
L’ulteriore conferma di questo lento riproporsi di sentenze un tanto al chilo diventa non causalmente la cronaca sbalorditiva delle ultime ore. A Imola una consigliera di Fratelli d’Italia che si spinge dove ancora mai nessuno: secondo lei i partigiani lasciarono volontariamente che le SS scatenassero la loro ferocia bestiale a Sant’Anna di Stazzema e tornarono sul luogo di una strage in cui erano stati trucidati e dati alle fiamme anche i bambini per derubare i cadaveri. Ad Ancona un funzionario del ministero dell’Istruzione che definisce per iscritto “sogni” i progetti dei regimi nazista e fascista, forse a causa di un uso inconsapevole dell’italiano.
Qual è, allora, la strada per sottrarre la lotta partigiana, quella scelta eroica di pochi per tutti, al gioco sporco della politica grossolana e alle insidie che si nascondono dietro gli appelli per una “memoria condivisa”? “Alla logica che stipa il discorso pubblico sulla guerra partigiana di crimini e pagine oscure, non basta reagire con quella uguale e contraria che contrappone di volta in volta atti di eroismo e pagine edificanti” perché l’effetto è che “non si riesce a uscire dalla sensazione di uno squallido pareggio: 1 a 1 e palla al centro”. Al contrario serve “recuperare complessità, dare profondità storica e concretezza alla distanza che ci separa da quegli anni”. E’ la direzione indicata dalla storica Chiara Colombini in “Anche i partigiani però…” (Laterza, collana Fact Checking, 192 pagg., 14 euro), che mette in fila i principali capi d’imputazione formulati in questi decenni contro la Resistenza e ci passa attraverso. Non è una difesa d’ufficio né una difesa e basta: né celebrare né giustificare, sottolinea Colombini, piuttosto “conoscere ciò che è stato”, “farsene carico”, “rivendicarlo per come è stato” per svuotare di senso, smascherare la “volontà di mettere in discussione il significato storico, politico ed etico” della Resistenza.
La scelta volontaria di rischiare di morire e di uccidere
A partire da quella che viene additata come la più cristallina delle contraddizioni: i partigiani usano la violenza. Sparano, ammazzano. Ma come, i “buoni”? “Quel che non si perdona ai partigiani – spiega Colombini – è non solo di essersi ribellati al sistema di dominio tedesco e fascista, ma soprattutto di averlo fatto in armi”. “Io ho sbaragliato tre battaglioni. Mario Fiorentini, il pacifista: più pacifista de me non ne trovi ‘n artro” dice uno dei più noti partigiani romani – Fiorentini appunto – in una delle testimonianze del Memoriale della Resistenza online. A Fiorentini viene un mezzo sorriso, autoironico, mentre racconta la sua decisione di usare le armi. Oggi ha 102 anni, nella vita ha fatto il matematico, con cattedra all’università. La notte del rastrellamento nel ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, fuggì attraverso i tetti mentre i nazisti portavano via da casa i suoi genitori. Fu uno dei protagonisti dell’attentato al reggimento Bozen in via Rasella, al quale gli uomini di Hitler risposero con la loro furia decuplicata alle Fosse Ardeatine. Mario Fiorentini, il pacifista, fu tra coloro che si trovarono costretti a prendere le armi, fabbricare ordigni, sbaragliare battaglioni. Sì, chi diventa partigiano “corre il rischio di essere ucciso e di trovarsi nella condizione di uccidere”, scrive Colombini, ed è “tutt’altro che semplice scegliere, senza essere obbligati, di rischiare di morire e di ammazzare qualcuno”.
La violenza diffusa e il popolo soldato del Duce
L’Italia in cui si muovono i partigiani è dilaniata da una realtà di “violenza diffusa”, nella quale un’intera generazione è nata, si è formata e diventata grande. Il fascismo è stato al potere per oltre vent’anni e la cultura della sopraffazione è un suo cardine irrinunciabile: il fascista inteso da Benito Mussolini è il “cittadino soldato”, di Credere, obbedire, combattere, ripete spesso lo storico Emilio Gentile. La guerra voluta dal Duce e da Hitler espande quel mondo perché è “totale”: è ovunque, punta ad annientare il Paese nemico, stermina i civili. Usare la violenza come denominatore comune – e quindi banalizzante – tra partigiani e repubblichini significa annullare la differenza delle motivazioni per cui quella violenza veniva usata da una parte e dall’altra. Quello iniziato l’8 settembre 1943 è “un conflitto ideologico che spacca la società lungo una linea che non coincide con i confini nazionali – rileva Colombini -, anzi li attraversa di sbieco e, all’interno di ciascun Paese, separa irrimediabilmente due idee di mondo inconciliabili: una fondata sulla sopraffazione, l’altra sulla libertà”. Per rimettere in ordine le cose: “Non sono i partigiani a ‘creare’ la violenza, la accettano come mezzo perché già esiste, è la condizione in cui si trovano a vivere, provocata dal conflitto e dall’occupazione”. Di più: la violenza è “ precisamente il cuore della situazione a cui si ribellano”. La differenza è solo che ora fascisti e nazisti non ne hanno più il monopolio. “La moralità della Resistenza consistette anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l’Italia a costo di spargere sangue” spiega lo storico Sergio Luzzatto in La crisi dell’antifascismo (un libro del 2004, a riprova del ritorno circolare delle stesse obiezioni e delle stesse risposte).
Il sangue delle stragi nazifasciste
Eppure, in questo continuo tentativo di (pretendere di) raccontare “la vera verità”, succede che con un paradosso fraudolento, perfino il sangue dei civili nelle stragi compiute dai nazisti – spesso con la complicità dei fascisti – diventi una prova a carico delle azioni dei partigiani. Diventano loro i “veri responsabili” dice Colombini. Diventano l’alibi della ferocia delle truppe di Hitler e degli ultimi fedelissimi del Duce in fuga. “E’ come se a questi ultimi – sottolinea la storica nel libro – fosse concessa una sorta di attenuante”. Come invece dimostrano i 5862 eccidi compiuti da nazisti e fascisti negli ultimi due anni di guerra (24348 vittime) l’obiettivo delle forze di occupazione è sempre stato quello di avere il dominio assoluto del territorio. La bestiale violenza nazista e fascista “esiste non solo perché esistono i partigiani, ma perché l’occupazione disegna un mondo senza altra legge che non sia la sopraffazione”. C’è il caso non isolato della strage del bosco di Limmari, in Abruzzo: 125 morti ammazzati, senza un solo partigiano nei dintorni.
Il punto è che per nazisti e fascisti “tutto ciò che si frappone tra gli occupanti e i loro obiettivi è un ostacolo inaccettabile”. Così da paese a paese, da città a città l’interruttore delle stragi cambia: ci sono rastrellamenti, ci sono operazioni di controllo dell’area che si trasformano in bagni di sangue (come a Sant’Anna, come a Monte Sole), ci sono esecuzioni di ebrei. Ci sono le rappresaglie come l’eccidio delle Fosse Ardeatine, su cui Colombini si sofferma a lungo ribadendo giocoforza le falsità alimentate sui gappisti di via Rasella (prima fra tutte quella per cui avrebbero avuto il tempo di consegnarsi al posto degli ostaggi), ricordando che contrastare l’azione dei Gap non è solo un fastidio militare o un punto d’orgoglio per nazisti e fascisti, ma perché è pericolosa perché dimostra che “resistere è possibile, che il nemico non è invulnerabile, che il suo potere non è legittimo”. Ed è per questo che le operazioni dei nazifascisti, in tutta Italia, mirano a “radere al suolo” tutto ciò che trovano sulla strada, compresi i paesi inermi, compresi i vecchi di cent’anni e i bambini appena nati.
Arrendersi o perire, il “sangue dei vinti”
Infine, il “sangue dei vinti”, espressione che sarebbe neutra se non ponesse tutte le morti di chi era “dalla parte sbagliata” sotto l’alone del delitto comune, del crimine di strada. Anche i partigiani, però… ha la forza di una scrittura netta e densa e smaschera lo schema di gioco dei libri come quelli di Pansa: “Affastella una miriade di casi agghiaccianti, in cui i partigiani umiliano, brutalizzano e uccidono persone ormai indifese, come se vittime e carnefici non avessero un passato, come se tutto iniziasse di colpo il 25 aprile” scrive Colombini. Le violenze non ci furono? Figuriamoci: “Si tratta di rifiutare l’abitudine ormai consolidata di tramutare quei momenti in una sorta di ‘Pagine gialle’ dell’orrore”.
L’80 per cento dei 10mila fascisti morti viene ucciso tra l’aprile e il maggio 1945: è l’insurrezione, la battaglia finale per la Liberazione, l’ora o mai più, l’arrendersi o perire scandito da Sandro Pertini. Al punto numero uno c’è mettere al tappeto per sempre il fascismo: per paura che torni, “per senso di giustizia” dopo vent’anni di soprusi “e anche per desiderio di vendetta – precisa Colombini – un sentimento di cui si deve tenere conto a meno che ci si rifiuti di ragionare in termini di comportamenti umani”.
Il Cln manda circolari contro eccessi e processi sommari, istituisce tribunali di guerra. Ma non può controllare l’animo umano: insieme alla gioia per la libertà, dopo oltre vent’anni di regime, “esplode la rabbia“. “Irrompe sulla scena la folla”, come dice Colombini, e “c’è di tutto: la popolazione atterrita dalle bombe, esasperata dalle privazioni provocate dalla guerra, terrorizzata a causa delle angherie di nazisti e fascisti, devastata dai lutti”. Ricorda un partigiano di Genova, citato nel libro: “C’erano i partigiani del 26 aprile, c’era la schiuma che in ogni sommovimento di questa portata viene a galla”. Le violenze che seguono la Liberazione hanno origini tutte diverse tra loro: c’entra la mancanza di comunicazione tra comandi che spinge a decidere da soli e in fretta o ancora c’entra quanto è stata dura l’occupazione negli anni precedenti o ancora c’entrano le azioni compiute dai nazisti in ritirata. Come può essere una coincidenza il fatto che i luoghi in cui vengono passati per le armi i fascisti seguano lo stradario delle esibizioni macabre dei cadaveri dei partigiani da parte di nazisti e fascisti. Piazzale Loreto è l’esempio noto a tutti.
La giustizia non giusta, la paura del ritorno del fascismo
Ma perché le uccisioni dei fascisti continuano oltre il 1945, sia pure calando? I fattori principali sono tre, secondo Colombini, ma non solo i soli. Il primo: l’eredità della politica delle armi, cioè la difficoltà di disinnescare il linguaggio violento della politica, ancora più comprensibile dopo che per anni le forze antifasciste hanno chiamato alla ribellione. Ma questo si intreccia con altri due fenomeni. Da una parte la paura del ritorno del fascismo, dopo che il suo regime aveva retto per oltre vent’anni il timore che fosse invincibile. Già subito dopo la guerra, nasce il Partito fascista democratico, i Fasci d’azione rivoluzionaria, il Msi a cui si iscrivono due irriducibili del Duce, Rodolfo Graziani e Junio Valerio Borghese. Dall’altra la giustizia non è giusta. I processi ai fascisti vanno a rilento, i condannati sono pochi, le pene eseguite solo una parte, a farne le spese sono spesso i pesci piccoli. Nell’amministrazione pubblica le carriere proseguono splendenti. La chiamano “continuità dello Stato”. Ha il volto di Gaetano Azzariti: presidente della Commissione sulla razza sotto il fascismo, ministro della Giustizia con Pietro Badoglio nel primo governo dopo il 25 luglio, presidente della Corte costituzionale della Repubblica democratica dal 1957. Si aggiunge l’amnistia di Togliatti che butta fuori 10mila fascisti su 12mila in carcere. Chi deve pagare, non paga. Spesso i fascisti vengono colpiti al rientro a casa, dopo la scarcerazione.
La realtà del dopo 25 aprile è così complicata che mentre l’amnistia di Togliatti libera i fascisti, lo Stato processa i partigiani per le loro azioni. I processi sono migliaia. Ma dentro ci finiscono anche azioni di guerra: si arriva a processare chi ha arrestato un collaborazionista per sequestro di persona. Il 1948 è l’anno in cui questo processo alla Resistenza entra nel vivo e Colombini ricorda che è lo stesso anno in cui Graziani, il ministro della Guerra di Mussolini a Salò, il criminale di guerra, il macellaio del Fezzan, torna libero.
I morti non fascisti, il caso di don Pessina
Poi, certo, le uccisioni di non fascisti. Secondo Mirco Dondi, storico che ha studiato a fondo il post-Liberazione, sono 12 e riconducibili a cellule indipendenti legate a un partito – il Pci – che però nel frattempo non solo aveva dato il più grande contributo alla guerra di liberazione, ma aveva scelto la strada della svolta di Salerno per dare all’Italia la democrazia e firmerà, con Umberto Terracini, la Costituzione repubblicana e liberale. Il filo a un certo punto si ingarbuglia con i vent’anni di regime appena abbattuto, i due anni di guerra civile, la guerra fredda appena cominciata. Germano Nicolini, Diavolo, emiliano di Fabbrico, comandante partigiano, finisce in carcere da sindaco di Correggio perché accusato di essere il mandante dell’omicidio di don Umberto Pessina. L’accusatore principale è Beniamino Socche, il vescovo di Reggio Emilia. Il Pci sa che il sindaco è innocente ma è scomodo perché cattolico. Nicolini sarà riconosciuto innocente dopo quasi 50 anni. “Rimasi in carcere dieci anni e mi sentivo ancora partigiano che doveva resistere” racconterà.
Eccola l’Italia liberata dal fascismo, uscita dalla guerra e dalla Liberazione, il sacrificio della violenza. “Solo se ci si fa carico della fatica di calarsi nella realtà drammatica che accompagna la fine del conflitto e gli esordi dell’Italia liberata si riesce a contenere il senso di disagio che si prova davanti alla brutalità che allora si scatena. Ed è una fatica necessaria, perché sarebbe assurdo dimenticare che il nostro presente pacificato – e la sensibilità che ci accompagna facendoci inorridire di fronte alla violenza – nasce proprio grazie a quella cesura pagata a così caro prezzo”. (di Diego Pretini, ilfattoquotidiano.it).
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